lunedì 31 ottobre 2016

Il finale che lui voleva

«Non mi dimenticherò mai la scena, durante i funerali di Eduardo, delle tre camere della televisione montate su torri, che di colpo, all'unisono, sollevarono il muso per aria in segno di rifiuto e, i segnali luminosi, gli occhi rossi, si spensero. Si stava uscendo dalla cattedrale dove aveva officiato il cardinale. C'erano più di cinquemila persone. Tutta la funzione era stata ripresa in diretta. Ora, sempre in diretta, davanti alla bara di Eduardo, presenti le alte autorità, si sarebbe celebrato il commiato.
C'era un ragazzo del carcere di Nisida - avrebbe salutato l'unico senatore della Repubblica che si fosse occupato di loro.
Ferruccio Marotti dell'Ateneo di Roma, dove Eduardo insegnava, avrebbe parlato ancora e, poi, sarebbe toccato a me in rappresentanza dei teatranti.
Dall'alto decretarono immediatamente che no, il commiato non si doveva fare. Era la vendetta dei politici che si erano visti esclusi dal rito. [...]
Splendido! Io ho visto per aria Eduardo che si faceva matte risate. Era proprio il finale che lui voleva. Non c'era dubbio, se l'era inventato personalmente, se l'era sceneggiato e allestito col permesso del Padreterno, "il padreterno dei teatranti", un certo Dioniso»
Dario Fo in Eduardo De Filippo. Vita e opere, 1900-1984
a cura di Isabella Quarantotti De Filippo e Sergio Martin



mercoledì 5 ottobre 2016

Essere figli d'arte

«Con orgoglio penso sempre di essere la terza generazione di una famiglia che si occupa di teatro: Eduardo Scarpetta, Vincenzino Scarpetta, tutte le mogli, mia zia Titina, il marito di mia zia Titina, mio zio Peppino, Luigi, io, ecco, è tutta una famiglia. Questo mi rende orgoglioso. [...] Molto spesso si scambia il mestiere dell'attore con un fatto di visibilità, cioè far parte di un mondo che chissà cos'è, mentre invece essere figli d'arte vuol dire essere coscienti del fatto che quel mestiere ce l'hai.
Francesco Canessa racconta che quando Titina fece al San Carlo la prima di Napoli milionaria!, era una mattina e tutti i teatri di Napoli erano requisiti. Provarono nel salotto di casa di Titina, non come oggi che si fanno tre o quattro mesi di prove. Misero in scena il testo in quindici giorni, nel salotto di casa. Poi andarono al San Carlo, entrarono di notte, smontarono le scene di un'opera lirica e montarono le loro piccole scene. Tennero la prova generale alle quattro del mattino, alle undici fecero lo spettacolo e alle due se ne andarono perché dovevano montare l'altro spettacolo. Fu un enorme successo, una commozione enorme.
Titina, uscendo dal teatro, disse a suo marito Pietro: "Pietro, a casa non abbiamo niente da mangiare, passiamo un momento all'alimentari e compriamo qualcosa". Se ne andarono a casa a mangiare.
Ecco, questo è il senso che hanno le famiglie d'arte: con i piedi per terra e basta. Nient'altro».

Dall'intervento di Luca De Filippo al Convegno
"Eduardo De Filippo e il teatro del mondo", 23-24 ottobre 2014,
ora negli atti del Convegno "Eduardo De Filippo e il teatro del mondo",
a cura di Nicola De Blasi e Pasquale Sabbatino, editore Franco Angeli


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