Foto di Tommaso Le Pera |
Non ho i titoli né la necessaria cultura teatrale per scrivere una vera recensione sulla rappresentazione de "La grande magia", commedia di Eduardo scritta nel 1947 e portata in scena in questa Stagione 2012/13 da suo figlio Luca. Tuttavia non posso fare a meno di riportare in questo spazio le mie impressioni dopo aver assistito allo spettacolo ieri sera, al teatro Quirino di Roma.
Ammetto di partire da una posizione di parzialità, dovuta al grande amore per il teatro di Eduardo che mi accompagna da tanti, tanti anni e quindi dico subito che ne sono rimasta davvero incantata. Si tratta di una commedia poco conosciuta e poco rappresentata, sia dallo stesso Eduardo che da altri interpreti. La messa in scena più nota è probabilmente quella che Giorgio Strehler realizzò nel 1985 e che in qualche modo la riportò agli onori della ribalta, non solo in Italia ma anche all'estero.
In estrema sintesi la vicenda narrata è quella di un marito geloso che, durante uno spettacolo di prestidigitazione, vede sparire sua moglie in un sarcofago ad opera del mago Otto Marvuglia. Invece di ricomparire dopo pochi minuti, la donna fugge con il suo amante. Per non rivelare il vero motivo di questa inaspettata sparizione, Otto cerca di far credere all'uomo che sua moglie si trova rinchiusa in una scatola che depone nelle sue mani; solo se la aprirà essendo realmente convinto della fedeltà di sua moglie, questa riapparirà. Il gioco si protrarrà fino alle estreme conseguenze poiché l'uomo, piuttosto che affrontare una realtà che lo spaventa e che non accetta, preferisce rimanere nell'illusione, anche quando, a distanza di quattro anni, sua moglie torna a casa.
È una commedia che non fu probabilmente capita fino in fondo negli anni in cui fu scritta e rappresentata. Sono molti i richiami a Pirandello, si discosta dai testi che avevano reso Eduardo celebre ed amato dagli spettatori e dai critici dell'epoca. Oggi risulta essere un testo estremamente attuale in quanto all'illusione del protagonista è possibile sovrapporre quelle di un'intera società che, con estrema facilità si affida ai "trucchi" dei ciarlatani di turno.
Foto di Tommaso Le Pera |
Luca De Filippo, come è sua abitudine, ha messo in scena la commedia in modo rigoroso. La sua interpretazione del mago Marvuglia riesce a restituire tutti gli aspetti del personaggio, da quello comico a quello più rassegnato e malinconico. Impossibile non pensare a Sik-Sik, precursore di Otto ed amatissimo da Eduardo il quale, nelle sue commedie, ha spesso rappresentato il mondo del teatro, il teatro nel teatro. Anche in questa commedia torna questo motivo ed il pubblico in sala, noi presenti, abbiamo in qualche modo preso parte alla rappresentazione, trasformati, grazie ad un faro blu, nel mare che viene solcato dalla barca su cui fuggono i due amanti.
Da mettere in evidenza un'aggiunta rispetto al testo della commedia e che Luca ha inserito all'inizio ed a metà del primo atto. All'apertura del sipario infatti, gli attori appaiono disposti in scena nella penombra, immobili come in un fermo immagine. Il palcoscenico viene quindi percorso da un uomo che si muove illuminando la sua camminata con una torcia e che recita quanto segue:
«Non la voce, poiché in silenzio dette il suo geniale contributo alla parte spettacolare dell'arte del teatro, ma lo sguardo intelligente, acuto, pronto e il sorriso rassicurante ricorderemo di Peppino Mercurio, nonché il suo vigile aggirarsi per tre quarti di secolo tra quinte, spezzati, praticabili, tiri, contrappesati, su palcoscenici italiani e stranieri e con paterne cure infine su questo del San Ferdinando, da egli stesso progettato e realizzato in tre anni di approfondito lavoro, solitariamente e umilmente affrontato come amava faticare lui, tavola tavola, chiodo chiodo».
Queste parole compaiono sulla targa che Eduardo fece apporre al San Ferdinando per ricordare il macchinista teatrale che costruì il palcoscenico del suo teatro. A metà del primo atto poi, durante un cambio di scena a vista, sempre nella penombra, lo stesso uomo passa di nuovo e stavolta ricorda al pubblico quello che Oreste Campese, protagonista de L'arte della commedia, dice al suo interlocutore, il prefetto De Caro:
«Quando cammino per le strade e mi capita di battere due o tre volte il piede in terra perché mi si è attaccato qualcosa sotto la scarpa, mi sorprende sempre il fatto che quei colpi battuti non producono lo stesso rumore di quando batto il piede sulle tavole di un palcoscenico; se tocco con la mano il muro di un palazzo, un cancello di ferro, una statua di marmo, una quercia secolare, lo faccio sempre con estrema delicatezza e con la sensazione di avvertire sotto le dita la superficie della carta o della tela dipinta».
Ho trovato queste due "parentesi" molto belle e significative poiché rappresentano davvero un tributo all'arte del fare teatro.
Molto belle anche le scene, realizzate da Raimonda Gaetani, grande scenografa e costumista che ha lavorato diverse volte con Eduardo stesso. Particolarmente felice l'interpretazione di Carolina Rosi nei panni della moglie di Otto, nonché sua assistente negli spettacoli; divertentissima nell'accompagnare con i gesti le surreali elucubrazioni del mago. Il marito tradito, Calogero, è interpretato da Massimo De Matteo che nel corso dei tre atti soccombe al "gioco" iniziato sulla terrazza dell'albergo fino a rinchiudersi nella sua illusione che manterrà serrata nella sua scatola. Insomma, davvero uno spettacolo che merita e, se potessi rivolgermi direttamente a Luca, che apprezzo moltissimo per la sua bravura e per il suo essere così misurato, quello che vorrei dirgli è, semplicemente, GRAZIE.
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