Requie all'anema soja... è un atto unico la cui prima stesura viene fatta risalire al 1926, anno in cui Eduardo recitava nella compagnia di Vincenzo Scarpetta. Non fu tuttavia rappresentato fino al 1932, quando venne portato in scena dalla compagnia "Teatro Umoristico i De Filippo" al Teatro Kursaal di Napoli.
Nel 1952 Eduardo lo ripresentò al Piccolo Eliseo di Roma insieme ad altri due atti unici, Amicizia e La voce del padrone, curandone però solo la regia . Gli interpreti erano giovani attori non dialettali, tra i quali Paolo Panelli, Bice Valori, Tino Buazzelli, Nino Manfredi e con le scene di Titina. In occasione di questa messa in scena il testo viene italianizzato ed anche il titolo cambia, divenendo I morti non fanno paura. I caratteri dei personaggi sono meglio messi a fuoco, ampliate le didascalie e definite le scene che nella versione originale erano lasciate a soggetto. Anche il finale viene cambiato e da una conclusione grottesca Eduardo passa ad una più moraleggiante e pessimistica.
La scena si svolge in una delle due stanze di una povera casa. Si è da poco svolto il funerale di Gennaro, un uomo nel pieno delle forze morto all'improvviso. Amalia, la vedova, affranta e quasi inebetita viene sostenuta e consolata da Carmela, energica vicina di casa «seduta in un atteggiamento apparentemente indispettito, come se la morte avesse dovuto chiedere il permesso a lei prima di pigliarsi don Gennaro». Sono presenti anche due colleghi del defunto, raggiunti poco dopo da un terzo, arrivato in ritardo per aver «fatto questione» con la moglie. Si unisce ai presenti anche Nicola, il portiere del palazzo, che offre i suoi servizi ad Amalia. Tutti i presenti sono costernati dalla rapidità con cui Gennaro è passato a miglior vita mentre la vedova continua a dolersi per la sua perdita. Carmela la convince ad andare a casa sua per rifocillarsi e tranquillizzarsi. Amalia però è preoccupata perché attende da un momento all'altro il rientro di Enrico, un agente di commercio di ritorno da un viaggio di lavoro, il quale ha preso in affitto la seconda camera dell'abitazione. Proprio nella sua stanza, la più appartata della casa, hanno allestito la camera ardente ed ancora non è stata sgomberata dai ceri e dal letto su cui, fino a poco prima, era deposto il morto.
Enrico infatti arriva, prima dell'orario previsto e febbricitante. Entrando in casa apprende della morte di Gennaro e naturalmente ne rimane molto colpito. Quando però si appresta ad andare nella sua stanza per coricarsi, viene fermato dai presenti che non sanno come rivelargli l'uso a cui è stata adibita. Carmela prende in mano la situazione, porta Amalia a casa sua mentre i tre colleghi di Gennaro si congedano. La donna torna poco dopo e, con l'aiuto di Nicola, rimette in ordine la camera di Enrico, che assiste smarrito ai movimenti dei due. Quando finalmente tutto è di nuovo in ordine l'uomo, rimasto solo in casa con l'unica compagnia del ritratto del morto che campeggia appeso alla parete, non trova il coraggio di entrare nella stanza. Questa scena muta viene descritta in maniera efficace dalla didascalia:
«[...] Enrico rimasto solo raccoglie i suoi indumenti e s'avvia verso la sua stanza; a metà strada rimane perplesso, torna indietro fingendo con se stesso di avere dimenticato qualche cosa, tenta di nuovo di entrare in camera sua; non ce la fa... Apre il balcone, s'affaccia e scruta il cielo. Fischietta una canzonetta in voga. Torna nella stessa stanza, si dirige difilato alla porta d'ingresso e la spalanca. Va sul pianerottolo, guardando in alto e in basso.Ora si fa animo: entra di nuovo nella stanza e si avvia lentamente verso la sua camera. Nel frattempo Nicola compare sul pianerottolo precedendo qualcuno al quale fa lume con una candela. Giunto al centro della porta d'ingresso, solleva il candeliere per illuminare meglio la rampa delle scale e con la mano sinistra fa un cenno invitante e reverente a colui che lo segue. Enrico avverte la presenza di un estraneo e repentinamente si volge verso l'ingresso. Alla vista di Nicola, che continua la sua mimica verso le scale, non realizza subito e rimane come impietrito, ma dopo un attimo grida».
La persona condotta da Nicola è il medico che Enrico, tornando a casa, aveva fatto chiamare. Rinfrancato dalla sua presenza, si sottopone ad una breve visita, al termine della quale gli viene suggerito di mettersi al caldo e di riposare, aspettando che la febbre scenda da sola. Quando il dottore fa per andarsene, Enrico cerca di trattenerlo, impaurito dall'idea di trascorrere da solo la notte in quella casa. Alla fine è costretto a rivelargli il motivo di tanta insistenza per farlo restare. Di fronte a questa rivelazione il dottore cerca di rassicurarlo, dicendogli che non è dai morti che l'uomo deve difendersi quanto piuttosto dai vivi.
«[...] amico mio, il morto non è altro che un uomo disarmato sul serio.È il combattente della guerra eterna, al quale la natura ha tolto per sempre l'arma più micidiale e insidiosa, la vera arma segreta: l'anima. Io posseggo ancora quest'arma, voi la possedete ancora. Di me potete avere paura, io di voi... [...] Se per un equivoco vi avessi scambiato per un mio nemico al quale avevo promesso di fargli la pelle, e per errore la facessi a voi? Voi legittimamente dovreste difendervi. O tu o io. Per disarmarmi definitivamente allora dovreste uccidermi. Non c'è altro mezzo per rendere inoffensivo l'uomo. [...] Andatevene a letto, felice di trovarvi solo, con l'ombra d'un disarmato».
In quel momento dalle scale del palazzo giungono le voci concitate di due uomini che stanno litigando furiosamente. Dopo urla e strepiti arriva Nicola a chiamare il dottore poiché uno dei due litiganti è rimasto ferito mentre l'altro è fuggito. Enrico a quel punto, si ritira in casa, chiude a chiave la porta e vi addossa contro dei mobili.
«[...] Si sente sicuro, ormai. Per un attimo, considerando il suo sciocco sgomento di prima, punta lo sguardo sul ritratto del defunto, e bisbiglia con serenità un deferente: "Scusami!", poi con moto deciso raccoglie i suoi indumenti e se ne va difilato in camera sua. Dopo una piccola pausa, sipario».
Nel 1956 Eduardo realizza per la televisione un ciclo di suoi atti unici, tra cui anche questo, nella versione presentata al Piccolo Eliseo. Viene poi incluso con il nuovo titolo I morti non fanno paura e datato 1952 nella prima edizione della Cantata dei giorni dispari pubblicata da Einaudi nel 1958, facendo quindi riferimento alla versione aggiornata e vi rimane fino al 1979, anno in cui uscirà l'edizione riveduta e definitiva delle Cantate. Qui non compare più nei giorni dispari ma trova la sua collocazione definitiva nella Cantata dei giorni pari, dove recupera un linguaggio più dialettale ed è inoltre proposta con entrambi i titoli e le due datazioni.
Nonostante si tratti di uno dei testi minori, come in altre opere scritte da Eduardo negli anni giovanili, è possibile individuare temi, situazioni e personaggi abbozzati che verranno poi affrontati ed approfonditi nelle commedie di maggior successo. In questo caso ad esempio, la scena in cui Enrico rimane da solo in casa prima dell'arrivo del medico, ricorda quella simile che ha come protagonista Pasquale Lojacono in Questi fantasmi!. Come fa notare Paola Quarenghi, poiché la versione definitiva dell'atto unico è quella rappresentata nel '52, e quindi successiva alla stesura di Questi fantasmi!, è probabile che vi sia stata una contaminazione reciproca tra le due opere e risulta difficile stabilire quale delle due abbia influenzato l'altra ed in che misura.
Bibliografia
Eduardo De Filippo, Teatro, vol. I, a cura di Paola Quarenghi e Nicola De Blasi (I Meridiani, Mondadori)
Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni pari, a cura di Anna Barsotti (Einaudi)
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